Riceviamo e volentieri pubblichiamo il seguente articolo, quale primo contributo per una rubrica che intende ospitare compagne e compagni della sinistra di classe .

Nota della Redazione

La situazione che ci sta di fronte ha caratteri singolari che evidenziano un mutamento rilevante del quadro politico e sociale del Paese. Forse è improprio parlare di eccezionalità, tuttavia le modificazioni cui stiamo assistendo configurano un mutamento di fase e pertanto vanno esaminate attentamente. Consideriamo le più rilevanti.

  1. La vicenda pandemica e la crisi che vi è connessa hanno modificato le condizioni di vita e il sistema delle relazioni di milioni di persone. Si è dilatato il disagio sociale, sono mutati i  comportamenti, è cresciuta la percezione della precarietà. Tutto ciò ha alimentato ulteriormente i processi di disgregazione sociale e ha suscitato reazioni molte volte egemonizzate dalla destra – anche estrema. La ripresa economica in corso ha poi ampliato le diseguaglianze, in particolare in tema di lavoro, estendendo a dismisura il precariato, favorendo le delocalizzazioni, accentuando le differenze di reddito e allargando ancora di più la forbice fra Nord e Sud del Paese. Essa ha così rafforzato il peso della  grande impresa e penalizzato il lavoro subordinato, accelerando tendenze secolari del sistema.
  1. Il governo Draghi ha rappresentato, in tale situazione, una particolarità dal punto di vista istituzionale – e non tanto per la sua natura tecnica, quanto per la figura del Presidente del Consiglio, in virtù del credito di cui lo stesso gode a livello europeo e atlantico. Ciò ha comportato una politica economica dichiaratamente liberista, prona ai diktat dell’Unione Europea. In pratica: un ruolo dello stato ancillare rispetto al sistema delle imprese, sostenute direttamente o indirettamente, ma non sottoposte ad alcun controllo o sollecitate in alcuna direzione; un intervento sullo stato sociale ridotto al minimo essenziale, con il sostegno (è il caso della sanità) prevalente alle strutture private; un intervento limitato di sostegno ai redditi più bassi, subito contraddetto dalla modulazione in senso non progressivo del prelievo fiscale. Ma il fatto più grave è rappresentato dall’inserimento di tali misure in un PNRR della durata di alcuni anni e, quindi, in una prospettiva di fase.
  1. La seconda conseguenza, meno eclatante della prima, ma sempre più percepibile, sta nell’evoluzione del sistema istituzionale. E‘ evidente che il ruolo di dominus di Draghi abbia influito non poco sull’equilibrio istituzionale, sia nei confronti del Parlamento – sommerso dalla decretazione di urgenza, spiegabile solo in parte con l’emergenza pandemica – sia nei confronti del Capo dello Stato, la cui difficoltà di elezione trova una spiegazione non secondaria nei vincoli che la presidenza Draghi ha posto per il timore sia di una sua elezione, che delle conseguenze di una sua mancata elezione. In poche parole, col governo Draghi il presidenzialismo (specie nella sua versione semipresidenzialista) ha fatto passi da gigante e non è un caso che Fratelli d’Italia brandisca oggi la proposta. Al crescente disagio sociale si accompagna dunque una crisi democratica serpeggiante.
  1. In questo contesto, che possiamo a ragione definire di arretramento sul piano politico, sociale e istituzionale, l’azione del governo ha beneficiato dell’assenza dell’opposizione. Da un lato, perché alla collocazione formale all’opposizione di Fratelli d’Italia, non ha corrisposto un’opposizione vera, dall’altro, perché a sinistra la denuncia e le mobilitazioni si sono scontrate con l’esiguità delle forze e con il muro di omertà della stampa e dei mass media. Unica eccezione, che va rilevata, è quella dello sciopero generale convocato dalla CGIL e dalla UIL, che dopo una fase concertativa troppo lunga e obiettivamente in ritardo, ha tuttavia rotto la pace sociale mobilitando milioni di lavoratori. Un fatto che costituisce la novità più interessante di questa fase, perché apre la possibilità di una discesa in campo del mondo del lavoro, soggetto trainante di una mobilitazione di massa.

Di fronte a questo scenario, le incognite sono grandi. Dal punto di vista sociale il disagio crescente rende urgente una lotta per modificare gli orientamenti di politica economica; dal punto di vista politico, resta la necessità primaria della ricostruzione di una presenza istituzionale della sinistra, essendo il Partito Democratico una forza largamente compromessa  da una visione liberista; dal punto di vista istituzionale, occorre ricostruire un assetto democratico, liberandosi delle catene del maggioritario, restituendo una sovranità al Parlamento e respingendo ogni velleità presidenzialista. All’ordine del giorno sta quindi, come obiettivo primario, la costruzione di un blocco sociale di opposizione. Quest’obiettivo non può essere delegato unicamente alle organizzazioni sociali, ma deve vedere in campo la sinistra di alternativa. Ma quali contenuti possono oggi compattare un blocco di opposizione? E quali soggetti animarlo?


Cominciamo spiegando cosa non possa intendersi per blocco di opposizione. Una pratica consolidata negli anni in molte formazioni della sinistra, distaccandosi colpevolmente da una lettura di classe e indugiando in un approccio movimentista, ha teso a interpretare l’opposizione sociale come la sommatoria di molti conflitti, di natura diversa, accomunati dall’ostilità nei confronti del governo. Si è trattato di un approccio non solo arretrato, ma terribilmente ingenuo. Ne è un esempio l’atteggiamento ambiguo di alcune formazioni circa il fenomeno no vax, cui si è guardato con una certa magnanimità quando si scagliava contro il governo. Non credo che quest’atteggiamento prepolitico sia utile. Il governo va contrastato sugli indirizzi che minacciano la condizione sociale, la sua coesione, il principio di eguaglianza, non inseguendo un generico ribellismo.

Quali sono oggi, dunque, i nodi  di una battaglia di opposizione? L’agenda è dettata dalla politica del governo. S’impone da subito, quindi,un’energica azione per contrastare tanto gli indirizzi assunti nella legge finanziaria, quanto quelli del PNRR. Venendo al merito, i nodi fondamentali sono i seguenti.

  1. In primo luogo, resta centrale l’iniziativa per contrastare efficacemente la pandemia. Al di là dei plausi che ha ricevuto la politica del governo da parti interessate, è evidente che le contraddizioni che si sono manifestate in modo rilevante dipendono non solo dall’iniziale incertezza nel come procedere, ma da un intervento che si è mosso a tentoni, condizionato com’era dalle pressioni dei potentati istituzionali (le regioni in primis), economici (le imprese) e politici (le valutazioni di convenienza elettorale delle forze di governo). A questo primo ordine di questioni se ne aggiunge un’altra che attiene a un orientamento radicato in questa compagine di governo, e cioè la volontà di contenere il più possibile la spesa sociale. In risposta non si può che assumere un orientamento che fa sua, da un lato, la generalizzazione dell’obbligo vaccinale e, dall’altro, la crescita della spesa pubblica in tema di riqualificazione del sistema sanitario e assistenziale, in una logica strutturale e non contingente, rilanciando il pubblico e non (come si sta facendo) il privato. Analogamente, l’epidemia ha messo in evidenza le gravi carenze della scuola in tema di edilizia scolastica, dimensioni delle classi, sistema dei trasporti, personale impiegato. Anzi,a tale proposito, si può a ragione sostenere che l’epidemia nei suoi effetti devastanti abbia messo in luce le carenze complessive del welfare italiano, Cenerentola rispetto ai  Paesi più sviluppati d’Europa.
  1. Il secondo campo d’intervento è quello del lavoro. La ripresa economica si sta compiendo attraverso una dilatazione abnorme del precariato e la discriminazione, in larga misura, dell’occupazione femminile, specie al Sud. Proprio per la natura della nuova occupazione, ogni stima sulla sua quantità effettiva si presta a mistificazioni, mentre non vi è dubbio che essa comporti una riduzione del salario erogato, condizioni di lavoro più insoddisfacenti e pericolose, scarse garanzie in termini di stabilità e prospettive. Di fronte a tutto ciò, non vi è dubbio che la prima esigenza sia quella di ridurre drasticamente il precariato, connettendo formazione con impiego a tempo indeterminato. Non solo: vanno posti vincoli alle assunzioni in termini di parità di genere e di salari minimi. Inoltre, è chiaro che l’espansione dell’occupazione deve trovare una forte opportunità nella riqualificazione di quei grandi settori pubblici – come sanità e scuola – di cui si è parlato prima; va previsto un intervento dello Stato per lo sviluppo di nuovi settori che il mercato non promuove spontaneamente. E infine, ma non da ultimo, va assunta la proposta della riduzione di orario a parità di salario e vincoli cogenti alle delocalizzazioni.
  1. La terza questione decisiva riguarda una lotta alle disuguaglianze sociali, in primo luogo di reddito, ma non solo. Esse, infatti, investono anche le questioni della differenza di genere, della condizione delle varie generazioni, delle diversità presenti nei vari ambiti territoriali. Esiste quindi la necessità di porre mano a interventi strutturali quali: la modifica del sistema fiscale, con l’introduzione di una forte progressività e di una lotta serrata all’evasione, un intervento sui servizi alla famiglia allargando l’offerta di asili e il sostegno all’attività domestica, una riforma del sistema previdenziale che impedisca il prolungamento dell’età pensionabile e che incrementi le pensioni più basse, un intervento infrastrutturale e di reindustrializzazione del Mezzogiorno.

Ciò detto, la costruzione di uno schieramento sociale unificato attorno ad alcune proposte di politica economica deve avere un suo centro. Dopo la vicenda dello sciopero generale è evidente che le forze di sinistra debbano scommettere sul prosieguo della mobilitazione, con il passaggio ad una vertenza nazionale con il governo, sostenuta dalla pressione del lavoro subordinato. La presenza della CGIL è a tale riguardo essenziale per dare credibilità a questa mobilitazione, ma varie altre forze sociali possono costituire preziosi alleati. Si pensi – a titolo di esempio – all’ANPI, il cui congresso è chiamato a pronunciarsi su una proposta di alleanza democratica che, se liberata da equivoci elettoralistici, potrebbe ricongiungersi alla battaglia in difesa e attuazione della Costituzione, che è la premessa per ogni impegno di svolta nel Paese.


Naturalmente, il processo di costruzione di un’opposizione al governo non è cosa facile. In primo luogo, perché il governo gode di un sostegno politico amplissimo e perché al suo interno le forze democratiche sono rappresentate da un partito, il PD, la cui vocazione liberista non offre alcuna garanzia. Le forze della sinistra di alternativa sono quindi quelle che devono agire  nel sociale e nei confronti delle organizzazioni di massa per invertire le tendenze e consentire un’azione di cambiamento. E qui veniamo a cosa sia oggi questa sinistra e quale sia la prospettiva politica sulla quale lavorare. A sinistra del PD, si collocano in modo disordinato molte formazioni politiche, ma il loro peso elettorale, oltre che le loro capacità di mobilitazione, sono limitate. Si tratta, inoltre, di formazioni molto diverse e non di rado alimentate da rivalità. 

Esse, poi, si trovano di fronte ad uno scoglio assai difficile da superare: non hanno una rappresentanza politica. Si tratta di un problema di prima grandezza, che sarebbe assurdo sottovalutare. Chi, anche a sinistra, ogni tanto esibisce un atteggiamento sufficiente nei confronti delle istituzioni e se la cava richiamando il primato del radicamento sociale, non tiene conto degli elementi dialettici che collegano sociale, politico e istituzionale. Nell’attuale fase, quindi, l’impegno della maggior parte di questa galassia di forze s’intreccerà con l’orizzonte delle elezioni politiche. Per altro verso, va anche riconosciuto che una battaglia di opposizione che si prolunghi necessariamente oltre la scadenza elettorale troverà impulso, o non lo troverà per nulla, anche in ragione  della capacità a sinistra di ottenere una rappresentanza istituzionale.

Ma nell’attuale fase, quale deve essere il perimetro della possibile unità a sinistra? Se si vuole conseguire, da un lato, un livello di mobilitazione sociale minimamente adeguato e, dall’altro, partecipare con successo alle elezioni politiche, occorre mettere rapidamente in campo un’alleanza di sinistra dai connotati esplicitamente antiliberisti che si ponga in alternativa alle politiche del governo e dello stesso PD. In questo caso la sua dimensione quantitativa costituisce un elemento essenziale della sua qualità, se per qualità s’intende l’efficacia dell’azione. L’obiezione che si può legittimamente porre a questa posizione è la seguente. Ma come si può pensare di riuscirci dopo che sono regolarmente fallite negli ultimi dieci anni tutte le coalizioni o alleanze praticate? E’ un’obiezione seria, che richiede un approfondimento. 

A me pare che vi siano a tale riguardo alcune spiegazioni degli insuccessi di questi anni. Alcune alleanze sono andate in frantumi dopo le elezioni per l’inconciliabilità di posizioni nei confronti dell’atteggiamento da tenere verso il PD e il governo. In altri casi, l’insuccesso elettorale ha decretato la fine di esperienze  nate essenzialmente per superare le soglie di sbarramento. In altri casi ancora, il naufragio dell’accordo è stato motivato dal solito vizio settario di alcune formazioni, tese a lucrare sui compagni di cordata per rafforzarsi. Questi rischi sono presenti tutt’ora ma si noti che alcune cose sono cambiate nel tempo: la natura delle politiche del governo Draghi rende molto difficile confluire su un appoggio al PD e gli esiti infausti delle precedenti esperienze elettorali alle politiche e alle amministrative rendono del tutto irrealistica la presentazione elettorale in solitaria.

E’ naturale, tuttavia, che occorra un approccio diverso dal passato. L’elemento dirimente è quello del primato da attribuire ai contenuti o al contenitore. A differenza del passato, centrali debbono essere i contenuti di una proposta programmatica, gestibile da subito a livello sociale, e non solo in vista delle elezioni. Non solo, spesso per ottenere il consenso alla costruzione di uno schieramento si è agitata la carota della costruzione di un nuovo soggetto politico. Quest’approccio è sbagliato. Rispondere positivamente alla dinamica sociale e al tempo stesso lavorare per una rappresentanza politico-istituzionale, nell’Italia di oggi, implica puntare su uno schieramento abbastanza largo, ma ciò comporta la necessità di coniugare profili politici diversi e disegni programmatici non omogenei. Un simile schieramento, quindi, non può dar luogo a un partito politico o a qualcosa di simile. Può approdare a una confederazione di soggetti o a un’alleanza politico-elettorale anche strutturata, ma sempre composta da soggetti autonomi. 


Un altro motivo che giustifica una scelta di questo tipo attiene alla prospettiva del cambiamento. E’ il tema della prospettiva socialista. Essa non può essere completamente elusa perché la crisi in atto evidenzia limiti del sistema, la cui soluzione ultima richiede un approccio che si collochi nella prospettiva di un superamento del capitalismo e che quindi travalichi l’antiliberismo. Una battaglia di opposizione può saldarsi intorno a una piattaforma antiliberista, ma per la natura della crisi e le dinamiche in atto nel sistema, è sollecitata a travalicare questo orizzonte.

Pensiamo alla pandemia e al suo carattere globale. È evidente che senza un intervento a scala mondiale essa persisterà, in forma più o meno endemica. Qui il tema è noto: è quello dei vaccini e dei brevetti, ma non solo, anche della produzione dei farmaci. Ben difficilmente sarà possibile eliminare i brevetti senza un intervento molto determinato. Così come un settore farmaceutico interamente in mano ai privati è un non senso. Si può lasciare in mano alle strutture private la scelta sistematica delle priorità sanitarie? Per passare a un altro campo, l’intervento sul lavoro può trovare una soluzione parziale soddisfacente, ma attenzione, per avere un mercato del lavoro di piena occupazione, guidato da imperativi sociali, il ruolo del pubblico deve dilatarsi e in misura difficilmente sostenibile dal mercato. Per esempio, sempre di più risulta evidente che l’intervento in settori innovativi e il rilancio del Mezzogiorno richiedano un intervento diretto dello Stato. Si potrebbe continuare con altri esempi.

In un’ottica di medio e lungo periodo, questi nodi che alludono a una limitazione del ruolo della proprietà privata e a una riorganizzazione sociale su basi diverse, sono destinati a riproporsi, a maggior ragione se le tendenze alla centralizzazione dei capitali che si traducono in crescenti diseguaglianze continueranno a trovare conferma. Nasce da qui l’esigenza che in un’alleanza antiliberista debba avere una sua collocazione specifica un soggetto comunista. Questo soggetto può alimentare un dibattito virtuoso sulla trasformazione del sistema. E’ in questo che trova legittimità un soggetto comunista autonomo e  al tempo stesso unitario ed è da qui che trae valore la raccolta delle forze che si riconoscono in una proposta comunista.

Personalmente credo che in questa prospettiva l’elemento ispiratore debba rimanere il lascito gramsciano e, in particolare, la sua concezione della rivoluzione in Occidente. Non tutte le formazioni che si dicono comuniste assumono oggi quest’orizzonte e non credo che sia credibile né utile tentare di modificare culture politiche troppo diverse. Alcuni intellettuali o politici di orientamento marxista da anni fanno del tema dell’ ”unità dei comunisti” la loro bandiera. Se si considera che gran parte delle formazioni che si definiscono tali hanno un’origine comune – le scissioni intervenute in Rifondazione comunista – e che l’estrema frammentazione delle formazioni comuniste rappresenta oggettivamente un non senso, tale proposta  può essere considerata plausibile.  Tuttavia, non si può prescindere dalle culture politiche e dagli orientamenti concreti che animano tali forze. Senza un minimo di omogeneità, anche le intenzioni più nobili si infrangerebbero contro ostacoli insormontabili.  Vi sono nel nostro Paese, invece, alcune formazioni che hanno in tal senso molte affinità e per le quali una progressiva unificazione sarebbe possibile. Penso in primis a Rifondazione Comunista, al PCI e a poche altre che, ammaestrate dagli errori commessi in passato e scevre da atteggiamenti settari, possono costruire un percorso comune.