di Bruno Steri

Il Pci celebra il suo Congresso in un contesto caratterizzato da un generale spostamento a destra del quadro politico. La scena è dominata dall’avvento di Mario Draghi quale “uomo della provvidenza”: in realtà, grand commis gradito al capitale finanziario europeo e internazionale, sostenuto in patria da un governo di unità nazionale con i soli fascisti di Fratelli d’Italia deputati ad un’ “opposizione di sua maestà”. Di questi tempi, può accadere di assistere in tv ad un amabile scambio di opinioni tra il segretario del Pd e Giorgia Meloni nell’ambito della festa organizzata dal partito di quest’ultima. Per carità, la buona educazione non si nega a nessuno; casomai, il problema è l’evaporare della politica. Ma più di ogni altra cosa, nel suddetto panorama il vero problema è la sostanziale invisibilità di una sinistra degna di questo nome, di una sinistra di classe. 

Certo, un Congresso non facile per i comunisti. E la difficoltà si percepisce in qualche intervento congressuale. Ho in mente, nel corso di un Congresso di Federazione cui ho recentemente partecipato, lo sguardo attonito e le parole di un compagno a commento dello sciagurato voto in sede europea con cui si è inteso equiparare nazismo e comunismo: “A volte mi capita di non credere ai miei occhi, nel vedere in che razza di mondo siamo precipitati”. 

Guai tuttavia a pensare che vi sia rassegnazione. Tutt’al contrario, anche questo Congresso (che, in questo numero della rivista, è l’oggetto dell’articolo di Patrizio Andreoli) sta servendo a far nascere una nuova consapevolezza e, con essa, l’atteggiamento più giusto per affrontare questa fase politica. Si avverte la necessità di ridare senso concreto e forza alle nostre parole, ai nostri concetti, al nostro impianto teorico. Dobbiamo reimmergerli nell’attuale dramma sociale, nei problemi che i soggetti con cui vogliamo interloquire vivono concretamente ogni giorno. Il potere evocativo delle nostre parole d’ordine va potenziato nel rapporto diretto con conoscenti, colleghi e colleghe di lavoro, a ridosso della sempre più generalizzata condizione di precarietà. In particolare penso ai più giovani, che tra l’altro chiedono al partito l’attivazione di seminari e scuole quadri (detto per inciso: io non dimentico che il 1969 operaio e la grande avanzata del Pci a metà degli anni 70 dello scorso secolo fu preceduta dal ’68 studentesco: con l’idea che questo non è affatto l‘unico e migliore tra i mondi possibili, che la realtà si può cambiare).  

Dobbiamo quindi estendere il numero di iscritti e l’influenza del Pci; e, nel medesimo tempo, non dobbiamo rinunciare all’interlocuzione con gli altri compagni di strada alla sinistra del Pd, pur sapendo che da essi possono dividerci questioni non secondarie. Nonostante l’esigua consistenza politico-organizzativa che nel complesso hanno queste forze, va mantenuto vivo il dialogo, proponendo e propagandando momenti di incontro e discussione su temi politici e teorico-strategici: con l’obiettivo – oltre che di far conoscere il partito – di ridurre ciò che ci divide e allargare ciò che ci unisce. Non si tratta di inventare scorciatoie organizzative, ma di promuovere ovunque è possibile almeno un’unità di azione. 

D’altra parte, il panorama è tutt’altro che immobile. Qui di seguito, nel contributo di Giorgio Langella, non a caso si segnala l’importante significato che assume il successo registrato dal recente sciopero di Cgil e Uil. Come già accaduto con la precedente mobilitazione del sindacalismo di base, anche le piazze del 16 dicembre scorso pongono con urgenza a noi comunisti il compito di rendere manifesta la nostra concreta solidarietà politica con chi sciopera, facendo conoscere le nostre posizioni e indicando quelli che per noi sono i responsabili dell’emergenza sociale e dell’attuale sfascio del mondo del lavoro.  

Pur non potendo usufruire di visibilità mediatica occorre far sentire la nostra voce con tutti i mezzi di comunicazione a nostra disposizione. E dobbiamo farlo anche rispetto ad un’attualità che oggi è dominata dall’emergenza virale, tema anch’esso squisitamente politico: ricordando che davanti a tale emergenza ci si è presentati disarmati grazie a decenni di criminali tagli al sistema sanitario e magari rispedendo al mittente le sparate destrorse di qualche “cattivo maestro”. Il riferimento a intellettuali come Massimo Cacciari e Giorgio Agamben non è puramente casuale. 

Quest’ultimo in particolare ha fornito più di un supporto alla propaganda NoVax: nei momenti più ispirati, ha argomentato che una società non può rinunciare alla libertà in nome della sopravvivenza, cedendo alla paura della morte: pensiero che a qualcuno potrà apparire filosoficamente sublime, ma che ben difficilmente potrebbe essere accettato da chi sia finito in terapia intensiva per colpa del covid. Quando poi il bon ton filosofico ha ceduto il posto alla quotidiana volgarità, egli è uscito dal seminato prendendosela direttamente con “la dittatura sanitaria di stampo comunista”. Non sorprendono simili reazionarie cadute di stile in chi ha teorizzato il pericoloso diffondersi di un “comunismo capitalista”, divenuto appunto “il principio dominante nella fase attuale di capitalismo globalizzato”: come è evidente, il nostro filosofo ha qui di mira  la Cina, a suo dire sintesi di alienazione capitalistica e controllo sociale di stampo statalista. 

Su questa rivista abbiamo già avuto modo ampiamente di illustrare l’abissale differenza che separa la libertà, come valore di chi vive in una comunità, dal libero arbitrio, tipico di una dimensione meramente individualistica. Nel presente numero di Ragioni e Conflitti lasciamo volentieri al loro destino le meditazioni di qualche filosofo liberal-liberista per rendere conto di quello che concretamente hanno fatto i Paesi socialisti per contrastare con successo la pandemia, nella fattispecie la Cina (vedi il contributo di Shixiong Wang) e Cuba (vedi l’intervista a Fabrizio Chiodo). 

Del resto, a proposito dell’ossessiva rivendicazione NoVax “Libertà! Libertà!”, viene da chiedersi ad esempio come mai non la sentiamo gridare quando muore un lavoratore. L’Inail ci dice che tra gennaio e ottobre del 2021 ne sono morti 1017, cioè tre al giorno.  E continuano a morire: mentre scrivo queste note apprendo che il crollo di una gru ne ha ammazzati ieri altri tre. Senza contare che nello stesso periodo la fredda statistica aggiunge che si sono verificati 448.110 infortuni non mortali, uno ogni 50 secondi. Davanti a una simile carneficina dove sono finiti questi finti libertari? Evidentemente non sono interessati a denunciare il lavoro nero, l’intermittenza dei contratti, che ad esempio nel settore dell’edilizia costringono molti over60 a salire ancora sulle impalcature per raggiungere i contributi necessari al pensionamento. E qualcuno cade giù. C’è chi ha proposto di abbassare gli anni minimi di contribuzione degli edili da 36 a 30 anni: una voce nel deserto e nessuna risposta. 

Lavoro senza sicurezza, dunque. Ma anche lavoratori senza lavoro. E redditi da lavoro ai minimi storici. Non è un caso che l’Istat lanci l’allarme sull’aumento in Italia della povertà assoluta, di chi cioè non arriva per difficoltà economiche a soddisfare i bisogni primari (alimentazione giornaliera, salute ecc): ciò purtroppo riguarda oltre 2 milioni di famiglie, pari a 5,6 milioni di individui.  “Libertà! Libertà!”, siamo noi comunisti a gridarlo forte: per una società più giusta, se possibile per una società socialista. Qui dobbiamo fare i conti con il governo Draghi, che rispetto ad una congiuntura sociale così grave trova il cinico coraggio di promuovere una riforma fiscale che, come un Robin Hood alla rovescia, premia soprattutto chi ha di più (si veda su questo l’articolo di Dario Marini). 

Se a tutto ciò aggiungiamo l’infausta prospettiva di una controriforma istituzionale, auspicata dai soliti noti, all’insegna di un’autonomia differenziata che smembrerebbe territorialmente l’Italia anche rispetto all’uguaglianza e alla parità di diritti (si veda l’istruttiva documentazione presentata da Walter Tucci), nonché il persistere di un sistema finanziario e bancario sottratto al controllo pubblico e dunque al perseguimento del bene comune (come leggiamo nell’articolo di Vincenzo Bello) – abbiamo a questo punto l’infausta quadratura del cerchio. 

Solo oggi, poco prima di inviare le bozze della rivista per l’impaginazione, abbiamo ricevuto la splendida testimonianza del compagno Giorgio Langella a commento della vittoria di Gabriel Boric in Cile. E abbiamo immediatamente deciso di presentarvela come editoriale.Di tutto questo trattiamo in questo numero 12 di Ragioni e Conflitti. Buona lettura, dunque e buon Congresso, compagne e compagni.